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鈴木竜 トリプルビル – 無音の叫び|チコーニャ・クリスチアン

鈴木竜 トリプルビル – 無音の叫び
Ryu Suzuki Triple Bill – Il grido muto 
愛知県芸術劇場とDance Base Yokohama (DaBY) が連携するダンスプロジェクト

Dance Base Yokohamaのアソシエイトコレオグラファー鈴木竜が創作した三つの作品は「身体の不在」というテーマを探り、現代社会の悩みを描き出す

2021年12月4日 愛知県芸術劇場 小ホール
2021/12/4 Aichi Prefectural Art Theater

Text by Cristian Cicogna
Photos by Naoshi Hatori/写真提供:愛知県芸術劇場

第一部        →Italian Version
never thought it would

演出・振付・出演: 鈴木竜 (DaBY)
ドラマトゥルク: 丹羽青人 (DaBY)
美術: 宮野健士郎
照明: 武部瑠人
衣装: 渡辺慎也

第二部
Proxy
愛知県芸術劇場 ☓ Dance Base Yokohama ☓ ダンスハウス黄金 4422

演出・振付: 鈴木竜 (DaBY)
出演: 伊藤琴葉、杉浦ゆら、鈴木大翔、副島日毬、松山源樹、山田怜央
ドラマトゥルク: 丹羽青人 (DaBY)
人形デザイン・製作: オデット・ピコ
照明: 武部瑠人
衣装: 菅井一輝

第三部
When will we ever learn?

演出・振付: 鈴木竜 (DaBY)
出演: 飯田利奈子、柿崎麻莉子、鈴木竜、中川賢
照明: 伊藤雅一  (RYU)
衣装: 渡辺慎也

 

音楽が止まっても、音が消えない。音楽がなくても、身体が動き続ける。
音楽が止まっても、時間は止まらない。踊る身体の時間は独特なリズムで流れる時間だ。時計の針が刻む時間でも、砂時計の中を落ちてゆく時間でもない。調子はずれのメトロノームがカチカチと刻む時間かもしれない。目の前に踊る時間は我々が生きる現代社会の時間だ。

同じリズムを執拗に繰り返すテクノ音楽は大都会の騒音を、無作為に吊るされた15本の細長いネオン管は目的も終わりもない夜を表現しているように私は捉える。鮮やかで、眩しく、冷たい色を放つネオン管が真っ黒な舞台に蛍光塗料を 滴(したた)らせているように見える。
重みのあるような光の下(もと)で一匹の蛾が地面にぴったり張りついていて、僅かな動きしか見せない。瀕死の心臓が波打っているようだ。しかし、ネオンの光が波のように点滅しだすと同時に、蛾は半狂乱になって飛び回り始める。

鈴木竜のソロパフォーマンスの始まりだ。
空気を打ち鳴らすような音楽のリズムに合わせてネオンの色が変わっていく中、鈴木竜は照明に反射して光るえんじ色のタイトスーツを身にまとい、素早い動きとスローモーションのようなゆっくりした動きを繰り返しながら、優雅なポーズと力強い踊りを披露する。まるで夜蛾が街路灯の光を求めて飛ぶかのように。永遠に続く夜で、待ち伏せているのは夜明けではなく、死なのだろうか。
蛾のイメージはゲーテの詩の一節に由来する。鈴木竜がパンフレットの解説で引用している。

おまえは どんな距り(ママ)にもさまたげられず
呪われたように飛んでゆく
ついに光をもとめて 蛾よ おまえは
火にとびこんで身を焼いてしまう
『ゲーテ詩集』より (井上正蔵訳/白鳳社)

鈴木竜はこの一句にインスピレーションを得たようで、光が描く自身の体の影を地面に空いた深い穴と見なし、「自らの内側に向かって落ちつづける、終わりの見えないフリーフォールのように」踊ると言う。

第二部のProxyでは、壊れたアンプから漏れてくるような耳障りな音が薄暗い空間を支配している。起こしてはいけない獣の寝息か。幽霊のしわがれ声か。はたまた堕天使の羽ばたきか。理性のない不安感をもたらす音が沼地の夜霧のように立ち込める感じだ。
ティム・バートンの映画のセットから抜け出して来たかと思わせる気味の悪い人形が暗闇からのっそり現れてくる。フランケンシュタインのように解体され縫い合わせた人形は、六人のダンサーによって舞台前に置かれて、観客を睨んでいる。SNSの無責任なアバターを表しているらしい。身体の実在をなくしてしまう我々の彷徨(さまよ)う仮想世界は衣装の褐色と同じ色で、出口のない迷路のようだ。
ダンサーたちは人形を抱いたり、倒したり、一緒に踊ったりする。音楽が静かで、寂し気なピアノ曲になると、時間を紡ぐ軸が変わり、日常のペースが狂い始め、ペアを組んだダンサーたちは身体が対立し、抱き合い、倒れて一体になってしまう。
鈴木竜は「我々が生きる現代は身体が実体を失い、幽霊化する時代だと感じています」と言う。
熱心に踊っていた最後のペアは、音楽が止まっても踊り続ける。不安に覆われる我々の心がムンクの名画の人物のように無音の叫びを上げている。

時間が逆戻りする。60-70年代のロックが大音量で流れる。ルー・リードやデヴィッド・ボウイの声が第三部のWhen will we ever learn? に力強く入り込み、Proxyの暗い雰囲気を吹き飛ばす。
舞台は照明が切り抜く四角いリングだ。鈴木竜は三人の部下を牛耳る上司らしく、激しい動きでパワハラをしていることを表現する。リングから足が出ると、音楽が急に止まるなか、四人の地位が入れ替わり、全く同じ動作が歌のリフレインのように何度も繰り返される。
「踊れ、踊れ、自分を見失わないために」。鈴木竜は伝説の振付家ピナ・バウシュの言葉に従い、無表情で踊る。音楽が止まって照明が消えても、踊り続ける。微かな衣擦れの音は、蛾が火に飛び込んで身を焼いてしまう音に聞こえる。

SNSやパンデミックの影響で大きく揺らぐ現代社会。『トリプルビル』は壊れゆく人間関係を表して、鋭い破片を舞台にまき散らし、ネオンに煌(きら)めくその破片は観客の心に刺さり、何とも言えない温もりを残す。

(2022/1/15)

 

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Ryu Suzuki Triple Bill – Il grido muto

Parte prima: never thought it would

Regia, coreografia, danza: Ryu Suzuki (DaBY)
Drammaturgia: Haruto Niwa (DaBY)
Scenografia: Kenshiro Miyano
Luci: Ludo Takebe
Costumi: Shinya Watanabe

Parte seconda: Proxy

Regia, coreografia: Ryu Suzuki (DaBY)
Danza: Kotoha Ito, Yura Sugiura, Taito Suzuki, Himari Soejima, Genki Matsuyama, Reo Yamada
Drammaturgia: Haruto Niwa (DaBY)
Artista pupazzi: Odette Picaud
Luci: Ludo Takebe
Costumi: Kazuki Sugai

Parte terza: When will we ever learn?

Regia, coreografia: Ryu Suzuki (DaBY)
Danza: Rinako Iida, Mariko Kakizaki, Ryu Suzuki, Satoshi Nakagawa
Drammaturgia: Haruto Niwa (DaBY)
Luci: Masakazu Ito (RYU)
Costumi: Shinya Watanabe

 

Anche se la musica si ferma, il suono non si spegne. Anche senza musica, il corpo continua a muoversi.

Anche se la musica si ferma, non si ferma il tempo. Il tempo di un corpo che danza è un tempo che scorre a un ritmo tutto suo. Non è quello segnato dalle lancette di un orologio, e nemmeno quello che si sbriciola dentro una clessidra. Forse è il tempo battuto dal pendolo di un metronomo impazzito. Quello che danza davanti ai miei occhi è il tempo della modernità in cui viviamo.

Una musica tecno, ossessivamente ripetitiva, e quindici lunghi nudi neon appesi in ordine sparso descrivono il frastuono di una metropoli che si dimena in una notte senza fine, senza fini. Dai neon, mai accesi tutti insieme, ma che lampeggiano in un singhiozzo inconsulto, cola sul palco completamente nero e vuoto, una vernice fluorescente, dai colori vividi, eppure freddi, abbaglianti.

Come schiacciata dal peso delle luci, una falena giace per terra, quasi immobile. Movimenti impercettibili, spasmodici. I battiti di un cuore morente. Ma non appena dentro i tubi la luce scorre a onde, ecco che la falena si solleva e, calamitata dai neon, volteggia impazzita.

L’assolo di Ryu Suzuki ha avuto inizio. È lui la falena.

La testa rasata, il corpo flessuoso avvolto in una tuta purpurea che riflette le luci i cui colori cambiano al ritmo battente della musica, danza, alternando movimenti frenetici a mosse lentissime, in un ralenti stroboscopico. Sembra davvero un insetto notturno a caccia della luce di un lampione, in una notte infinita, dove ad attenderlo non vi sia l’alba, bensì la morte.

L’immagine della falena, spiega Suzuki, coreografo associato di Dance Base Yokohama, deriva dalla poesia Beato desiderio di Goethe, che recita così:

Nessuna distanza ti ostacola
Te ne vai in volo come dannato
E infine, avido di luce tu, falena,
Finirai col bruciarti

Ispirato da questi versi, ha immaginato ‘l’ombra proiettata dal proprio corpo come un buco profondo in cui, in posizione prona, precipitare in una caduta senza fine’.

In Proxy lo spazio che si perde nella buia profondità del palcoscenico, sempre nudo, è dominato da una musica tetra e un fastidioso sibilo, come di un amplificatore difettoso. Il respiro di una belva dormiente che sarebbe saggio non destare. Oppure la voce rauca di un fantasma. Forse il battito d’ali di un angelo caduto. Un suono vagamente inquietante come la nebbia notturna che si alza da uno stagno.

Dal buio emergono dei pupazzi dalle perturbanti fattezze animalesche che sembrano fuggiti dal set di un film di Tim Burton. Smembrati e poi ricuciti insieme alla rinfusa come dei piccoli Frankestein, vengono posizionati da sei ballerini sulla ribalta e illuminati da stretti coni di luce che danno l’effetto di animarli. Fissano il pubblico, alcuni con sguardo torvo, altri con un ghigno sarcastico. Sono gli avatar che irresponsabilmente utilizziamo, anzi noi stessi diventiamo, sui social media. Proxy è il mondo virtuale in cui, perduta la consistenza corporea, vaghiamo. Un mondo che ha lo stesso colore bruno dei costumi dei ballerini, e assomiglia a un labirinto senza via d’uscita.

Ognuno danza con il proprio pupazzo, lo abbraccia, lo nasconde, lo fa cadere. Quando la musica cambia in un tranquillo pezzo per solo pianoforte, anche l’asse su cui si avvita il tempo muta inclinazione e il ritmo della quotidianità impazzisce. I ballerini danzano a coppie, i corpi si cercano, si scontrano, si riavvicinano, si perdono di nuovo, crollano a terra fondendosi uno nell’altro in un abbraccio che comunque appare meccanico, asettico.

‘Viviamo in un’epoca in cui il nostro corpo ha perso la propria materialità, un’epoca che ci sta trasformando in fantasmi’, si rammarica Suzuki.

La danza dell’ultima coppia è impetuosa e sensuale, i corpi si allacciano quasi con dolore. Poi la musica finisce, ma loro continuano a danzare. Il nostro animo oppresso dall’ansia che ci attanaglia emette un grido, muto, come nel celebre dipinto di Munch.

Il tempo retrocede, vezzeggiato da canzoni rock anni ’60-’70 sparate a tutto volume. Le voci calde e graffianti di Lou Reed e David Bowie irrompono nella terza parte, intitolata When will we ever learn? con un’energia che spazza la cupa atmosfera di Proxy.

Il palcoscenico è il solito nero vuoto, ma trasformato in un ring immaginario ritagliato da algide luci. Ryu Suzuki recita il ruolo di un capo dispotico che manipola e maltratta tre suoi sottoposti, simbolicamente in biancheria. Come se ci fosse un fotosensore, appena una parte del suo corpo esce dal quadrato, la musica si blocca di colpo. Quasi a richiamare il ritornello di una canzone, gli incroci e gli scontri fra i quattro corpi sono movimenti sincronizzati ripetuti più volte, con un continuo scambio dei ruoli.

‘Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti.’ Tenendo sempre a mente questa frase di Pina Bausch, citata nelle note di regia, Suzuki danza con lo sguardo fisso davanti a sé, privo di espressione. Anche quando la musica finisce, anche quando le luci si spengono, continua a danzare. Il lieve fruscio dei vestiti mi fa pensare al volo di una falena che, avida di luce, finisce col bruciarsi.

Triple Bill racconta lo disgregarsi delle relazioni umane nella società contemporanea scossa dall’utilizzo massiccio dei social media e ora dalla pandemia. E ne sparge sul palcoscenico i cocci acuminati, piccole schegge illuminate dai neon che vanno a conficcarsi nel cuore dello spettatore, lasciandogli un indefinibile tepore.