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Il rimpianto del fantasma e il Mostro – Opera contro l’oblio| Cristian Cicogna

Il rimpianto del fantasma e il Mostro – Opera contro l’oblio
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2021/7/4 Hyogo Performing Arts Center

Text by Cristian Cicogna 

Di norma scelgo quale opera vedere in base a chi la fa. Che si tratti di un film al cinema o di uno spettacolo teatrale, la prima cosa che cerco in una locandina è il nome del regista, che spesso compare, chissà per quale ragione, a caratteri più piccoli di quello degli interpreti.
Questa è la seconda volta che assisto a uno spettacolo di Toshiki Okada (n. 1973), regista fuori dagli schemi e autore decisamente originale. Fondatore della compagnia Chelfitsch nel 1997, ha già all’attivo importanti riconoscimenti sia come drammaturgo che come scrittore. Okada mette in scena i propri testi, e con quest’ultimo si è aggiudicato il 72° Premio letterario Yomiuri.
Ma non è questo l’unico motivo che mi ha spinto ad andare a vedere Il fantasma col rimpianto e il Mostro. La calamita più forte è stato proprio il titolo.
Io non sono un patito dello yōkai, il mondo di spettri e demoni tipico della tradizione giapponese, ma il termine ‘rimpianto’ mi ha insospettito. Forse non si tratta di quel tipo di fantasmi e di mostri che compaiono nei recenti anime di successo. Ancor più il sottotitolo ‘Opera musicale che si oppone all’oblio’ lasciava pensare a qualcosa di più profondo. I cambiamenti nel tessuto sociale, i problemi ambientali sono temi cari all’autore. La breve spiegazione sulla locandina mi dava ragione, eppure non ho saputo nascondere la sorpresa per il contenuto dei due atti.
Zaha fa riferimento all’archistar inglese di origini irachene Zaha Hadid (1950-2016). Celebre per i suoi progetti dalle linee aerodinamiche e futuristiche, nel 2012 aveva vinto la gara per il design del nuovo Stadio Olimpico per i Giochi di Tokyo 2020, ma a causa dello spropositato aumento dei costi rispetto alla proposta originaria, il governo nipponico annullò la collaborazione. Di lì a poco Zaha Hadid sarebbe morta d’infarto a Miami.
Tsuruga è il nome di una città nella Prefettura di Fukui, sul Mar del Giappone, ma è più nota per essere il sito della centrale nucleare conosciuta con il nome di Monju. Costruita nel 1986 (l’anno di Chernobyl!), non è mai entrata in funzione a pieno regime, in seguito a vari incidenti e alle più severe misure antisismiche adottate dopo il terremoto dell’11 marzo 2011 e il conseguente tsunami che ha gravemente danneggiato la centrale di Fukushima. Sarà questo il mostro di cui parla il titolo? Mah, comunque la cosa sembrava interessante.
Dulcis in fundo, un cast di altissimo livello, tra cui Mirai Moriyama, attore e ballerino, scelto per la coreografia della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici.
Tuttavia ciò che maggiormente ha stuzzicato la mia curiosità è stata la scelta di Okada di ‘prendere in prestito’ la struttura del teatro nō, operazione a mio avviso molto affascinante, nonché rischiosa. Sarà un tentativo simile a quello dei Cinque nō moderni di Yukio Mishima?
Le aspettative dunque erano tante e molteplici.

Il non ha bisogno di presentazioni. Nato in epoca Muromachi (1336-1573) come forma d’arte apprezzata dai signori feudali e dai samurai, nel corso di 600 anni di storia ha conservato praticamente intatta la sua essenza nello stile, nei costumi, nella musica, nei drammi rappresentati. Insieme a kyōgen e kabuki è una delle tre forme di teatro tradizionale giapponese.
Può risultare facile trarre ispirazione da un simile scrigno traboccante di pietre preziose. È come attingere acqua pura e cristallina da un pozzo antichissimo. Ma se la corda con cui si tira su il secchio non è robusta, il rischio di fallire è molto alto.
Guardando all’Europa, un discorso simile si potrebbe fare pensando alla tragedia greca, alla commedia dell’arte o all’opera. Pur nelle loro diversità storico-sociali, il punto che accomuna questi generi teatrali sta nella funzione di svago, di intrattenimento del pubblico. Tuttavia il , specie se visto da occhi occidentali, non è semplice intrattenimento. Il è rito. È la stilizzazione di forme cristallizzate nel tempo, eppure ancora vive, forti, seducenti.
La scelta, saggia, di Okada è stata quella di portare rispetto al rito, evitando una mera copia degli stilemi classici. Questo traspare subito dall’allestimento, a dir poco sobrio: un manifesto del minimalismo. Le assi nere del palcoscenico sono coperte da un grigio tappeto della stessa misura del palco nō, di cui non riprende nessun altro elemento. Non c’è kagami ita, la parete di fondo con il tipico pino dipinto nello stile della scuola Kanō; non ci sono le quattro colonne portanti che indicano la posizione fissa degli interpreti; non c’è hashigakari, il ponticello che conduce alle quinte, sostituito da un semplice passaggio dello stesso materiale e colore del tappeto al centro della scena. Tre piccoli coni di un giallo fluorescente al posto dei tre pini dipinti sullo hashigakari sono l’unica licenza allo stile pop del regista, manifestato appieno nello spettacolo precedente.
Un enorme neon sovrasta la scena e la sua algida luce contribuisce a dare l’effetto di un ring senza corde. Stiamo per assistere a un incontro di lotta?
La musica è dal vivo. Tre i musicisti seduti sul fondo del tappeto grigio, dove di solito siedono i suonatori (hayashi) con un flauto traverso e due tamburi, uno piccolo e uno di medie dimensioni. Qui invece abbiamo tre daxophone e una chitarra elettrica. Nel jiutaiza, la posizione del coro, sul lato destro guardando dalla platea, c’è solo una persona, vestita di nero, con una tuba nera un po’ sformata, meditabondo su una sedia nera, le gambe accavallate.
Tutto lascia pensare che non assisteremo a una tradizionale esibizione di musica .

Ciò che invece Okada ha ripreso fedelmente sono i ruoli degli attori, o almeno dei tre principali: shite, waki, ai.
Lo spettacolo ha inizio con l’entrata in scena del comprimario (waki) Rui Kurihara, a passo lento, trascinando una borsa da viaggio. Dice di essere un turista, venuto apposta a Tsuruga per ammirare dalla spiaggia l’impianto di Monju.
Tuttavia le luci in sala non vengono spente del tutto, probabilmente per dare al pubblico la sensazione di stare assistendo a un vero , che si svolge di giorno nel recinto di un santuario shintoista.
L’attrice Shizuka Ishibashi è la protagonista (shite) del primo atto. (Per inciso va ricordato che nō, kyōgen e kabuki utilizzano solo attori maschi.) Lo shite generalmente compare in scena due volte: nella prima parte può incarnare un personaggio storico o letterario, nella seconda appare in forma di fantasma che esegue una danza.
Tutti gli attori parlano un giapponese standard, moderno, comprensibile, notevole differenza rispetto al , il cui linguaggio arcaico è piuttosto oscuro e reso ambiguo dall’ampio utilizzo di omofoni.
I costumi di scena sono un altro punto di forte distacco dalla tradizione. Le forme semplici, vagamente abbondanti, e i colori tenui, quasi neutri, sono molto lontani dalla sontuosità dei kimono che riempie gli spazi di un palcoscenico . I due waki recitano in sandali, Shizuka Ishibashi e Mirai Moriyama addirittura in scarpe da ginnastica. Soltanto le ampie maniche delle lunghe vesti dei due shite divenuti fantasmi richiamano lo sfarzo del tipico kimono chōken.
Quello che sorprende in Tsuruga è il fatto che il protagonista non sia una persona, bensì Monju, il reattore nucleare. Spacciato per essere un gigante buono che avrebbe regalato ‘energia da sogno’, si è trasformato in un mostro spaventoso e inutile, poiché la sua energia, vista come una minaccia, è rimasta inutilizzata, rinchiusa nel cuore stesso del Mostro.
Nella seconda parte Shizuka Ishibashi entra in scena lentamente, con il solenne passo rituale dello shite. Indossa una maschera, ma non è di legno come nella tradizione. È una maschera di plastica aderente al viso, i cui tratti, pur visibili, appaiono alterati, come fossero stirati, appiattiti, dando l’impressione di essere davanti a un’androide.
Nel la musica non è mai semplice accompagnamento. È un elemento essenziale per creare il mondo invisibile che lo shite rivive. Il flauto, i tamburi, kakegoe (brevi suoni gutturali emessi dai percussionisti), studiate pause di silenzio sono indispensabili a completare l’atmosfera che i limitati movimenti dell’attore possono solo accennare. Il palco diventa il magico punto d’incontro del presente con il passato, o del reale con il fantastico.
I tre musicisti Kazuhisa Uchihashi (chitarra e daxophone), Kyoko Tsutsui e Yumiko Yoshimoto (entrambe al daxophone) svolgono questo ruolo magistralmente. Il suono del daxophone è a tratti acuto e stridente, altre volte profondo e cupo, a esprimere con i suoi cigolii e stridori da unghie su una lavagna i tormenti e i rimpianti del fantasma. La chitarra elettrica aggiunge un tocco dark da sofisticata musica ambientale, come l’effetto di una nebbiolina che si alza a creare alla perfezione un’atmosfera onirica.
Quella di Shizuka Ishibashi è una performance di danza contemporanea, a cui si sovrappone la voce di Tabito Nanao: una narrazione in stile quasi rap, anzi una sorta di confessione. Jiutai ha la stessa funzione del coro nel teatro greco, descrive la situazione, esamina i fatti, svela la psiche del protagonista.
La sinuosa danza dello shite richiama ai miei occhi degli atomi in movimento, particelle rinchiuse nel nocciolo della centrale, mentre le parole della voce narrante sembrano rapite dalla brezza marina sulla spiaggia sovrastata dalla presenza del Mostro.

Anche in Zaha abbiamo la comparsa di un fantasma con il suo rimpianto (Mirai Moriyama, shite) e un altro Mostro, di nuovo non una persona, ma un edificio, una struttura architettonica: il Nuovo Stadio Nazionale Olimpico di Tokyo. Shingo Ota (waki) passeggia lungo il recinto dello stadio in costruzione, che è venuto a vedere apposta in fase di costruzione in quanto momento unico, irripetibile. Il fantasma è invece quello di Zaha Hadid, che si è vista stracciare il progetto con cui aveva vinto il concorso, dovendo combattere contro il voltafaccia dell’allora governo Abe e la successiva ostilità dell’opinione pubblica giapponese. Il rammarico, misto a rabbia e tristezza, nasce dal fatto che, a causa della morte improvvisa nel corso della battaglia legale, non può difendere le proprie ragioni. Sentimenti descritti ad arte dalla danza di Mirai Moriyama, dalla narrazione in stile rap di Tabito Nanao e dall’esecuzione musicale del trio.
Nel dare voce al popolo, alla gente comune è il ruolo riservato all’attore definito ai. Di solito entra in scena tra la prima e la seconda apparizione dello shite, con il compito di legare le due scene, spesso interpretando in maniera comica e grossolana, ma anche ingenua e sincera, il sentimento della gente di strada. Sia in Tsuruga che in Zaha questo ruolo non secondario è affidato a Hairi Katagiri, valida attrice di grande esperienza, molto nota al pubblico sia in TV che al cinema. Nel primo atto esprime il complesso sentimento degli abitanti della Prefettura di Fukui, le cui prospettive di un futuro di energia a basso costo e possibilità di lavoro erano state amaramente deluse. Nel secondo mette in luce più che altro l’attenzione suscitata dallo scontro fra l’archistar e il governo nipponico e la successiva, rapida perdita di interesse per la vicenda.
Ed è qui che emerge il tema che sta più a cuore al regista: la tendenza dei giapponesi a dimenticare i fatti, anche i più importanti, di farli cadere nell’oblio nella vana speranza di cancellarli, di convincersi che non siano mai accaduti. Pochi si ricordano di Monju, il Mostro che ha il nome di un bodhisattva. Quasi nessuno ripensa a Zaha Hadid e alla sua vicenda.
Ma questi sono solo due esempi emblematici di un fenomeno ricorrente che ho potuto riscontrare io stesso. Non mi riferisco solo ad avvenimenti di un lontano passato, come potrebbe essere l’attacco al gas nervino nella metropolitana di Tokyo. Dell’incidente alla centrale di Fukushima si sente parlare pochissimo, quasi fosse un brutto ricordo da rimuovere, la cui memoria costituisce un ostacolo contro il progresso, non tanto tecnologico, quanto nel senso di proseguire la vita giorno per giorno. Chi si ferma a guardare indietro è perduto. In Europa, per dire, Chernobyl fa ancora paura. Qui il nucleare non sembra in discussione.
Ma come può avanzare un Paese che non ha cura della propria memoria? Come fa ad imparare dai propri errori, correndo il rischio di ricommetterli? Un Paese senza memoria è destinato alla rovina. Bisogna ribellarsi all’oblio.
A fine spettacolo gli attori vengono chiamati più volte alla ribalta e quando al centro compare Okada è addirittura standing ovation. Ma quanti di quelli che battono freneticamente le mani avranno colto il suo messaggio di lotta all’oblio?
Alcuni critici hanno affermato che la versione d’avanguardia di Mishima fosse superiore ai drammi a cui si era ispirato.
Il rimpianto del fantasma e il Mostro è uno spettacolo di altissima qualità. Okada ha attinto dal prezioso pozzo del nō con sapienza e originalità, non cadendo nella trappola di limitarsi a un lezioso omaggio o a una semplice rivisitazione in chiave moderna. Una ben riuscita trasposizione in una dimensione contemporanea, attuale ma non scontata.
Applausi!

9 luglio

(2021/8/15)