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La campana di Pandora – Il futuro intravisto dal passato | Cristian Cicogna

La campana di Pandora – Il futuro intravisto dal passato
=======> Japanese Version

2021/5/15 Hyogo Performing Arts Center
Text by Cristian Cicogna
Photos by Nobuhiko Hikiji/from Hyogo Performing Arts Center

Cast
Testo:Hideki Noda
Regia:Hirotaka Kumabayashi

Interpreti:
Mugi Kadowaki Daichi Kaneko
Satoru Matsuo Reiya Masaki
Yukiaki Kiyama Koki Chonan Kurodo Hachijoin
Yuya Matsushita Tamaki Ogawa

Staff
Scenografia:Mitsuru Sugiura
Luci:Toshiyuki Kasahara
Suono:Akemi Nagano
Costumi:Masami Hara
Hairmake:Naoki Kamata
Drammaturgia:Kazuhiro Tamaru
Direttore di scena:Toshihisa Shibuya

 

I giapponesi hanno in genere una conoscenza piuttosto vaga dei miti greci, ma di quello di Pandora tutti più o meno conoscono il finale. Curiosamente il celebre vaso in giapponese diventa una semplice ‘scatola’.
È un peccato dunque che pochi sappiano che il mito di Pandora è strettamente legato al personaggio di Prometeo. Quello che mi ha sempre affascinato degli eroi greci è la loro umanità, nel senso di grande somiglianza con gli esseri umani. Gli scatti d’ira, la maniacale gelosia, gli slanci d’amore, lo spirito di vendetta sono sentimenti che ben conosciamo, ma il fatto che coinvolgano delle divinità sembra renderli più nobili, meno meschini e truci, in un certo senso più romantici.
E Prometeo è, a mio avviso, il prototipo dell’eroe romantico. Dopo aver creato gli uomini per ordine di Zeus, infonde loro intelligenza e saggezza. In questo processo se ne innamora. Il furto del fuoco, ritenuto dagli dèi non adatto per esseri imperfetti, non nasce dalla volontà di sovvertire le leggi dell’Olimpo. L’offrire un’arma essenziale per la sopravvivenza e lo sviluppo della civiltà umana è un atto d’amore, il dono, il sacrificio di un padre premuroso.
Il castigo è inevitabile, e degno della mente perversa di Zeus. Ma la furia vendicativa con cui il dio punisce Prometeo, incatenato a una roccia e costretto a vedersi ricrescere di notte il fegato che un’aquila gli divora di giorno, diventa subdola vendetta nei confronti degli esseri umani.
Ordina al figlio Efesto, dio del fuoco, di creare una donna, a cui infonde la vita con una goccia di rugiada, modo assai più poetico e garbato rispetto alla creazione di Eva. Nasce così Pandora, la prima donna del genere umano. Gli dèi fanno a gara per offrirle i loro doni: Atena l’intelligenza, Afrodite la bellezza, Apollo il bel canto e la capacità di guarigione. Zeus, astuto scacchista, la curiosità. E naturalmente il famoso vaso, con l’ordine tassativo di non aprirlo.
Pandora, il cui nome in greco significa appunto ‘colei che ha ricevuto tutti i doni’, viene inviata al fratello di Prometeo, Epimeteo, il quale ignora il suo avvertimento di rifiutare qualsiasi regalo da Zeus. Amore a prima vista e matrimonio. L’epilogo è risaputo. Vinta dalla curiosità, la donna apre il vaso proibito, da cui fuoriescono i mali che vanno ad affliggere gli uomini. Nel richiuderlo precipitosamente, nel vaso rimane soltanto la speranza (da cui il noto adagio: la speranza è l’ultima a morire).

Ero curioso di vedere quanto del mito originario ci fosse nell’opera La campana di Pandora di Hideki Noda (n. 1955), regista, attore e sceneggiatore protagonista della scena teatrale contemporanea nipponica. Il testo, pubblicato nel 1999, pluripremiato e portato in scena all’epoca sia dallo stesso Noda che dal grande regista Yukio Ninagawa (1935-2016), destò un certo clamore, anche grazie all’inedito duello di produzioni.
In questa occasione la regia è di Hirotaka Kumabayashi (n. 1977) che, fattosi notare con opere di Kunio Shimizu (altro grande drammaturgo del Sol Levante, scomparso proprio di recente), Čechov e Shakespeare, era alla prima prova con un testo di Noda.
La prima sorpresa viene dal fatto che Pandora non è una donna, bensì il nome di una nazione, esistita in un passato indefinito ma comunque lontano, sconfitta in guerra e scomparsa dalla faccia della terra.
La vicenda si svolge su un doppio piano spazio-temporale, strettamente connesso. La storia ha inizio a Nagasaki la notte che precede l’inizio della Guerra del Pacifico, cioè il 6 dicembre 1941. Siamo in un sito archeologico dove è stata ritrovata la presunta tomba di un re. I personaggi: il professor Kanakugi, arrivista e senza scrupoli, il suo giovane assistente Ozu, la fidanzata di quest’ultimo, Tamaki, figlia dell’avida imprenditrice che finanzia gli scavi.
Ozu ritrova nella tomba un chiodo, un unico chiodo in tutto quel sito di marmi e pietre. Strano. Quel chiodo, o meglio, il mistero che esso racchiude, sarà l’anello che unisce i due piani della vicenda, la Nagasaki dell’Impero che sta per sfidare gli Stati Uniti sul Pacifico, e quello che Noda definisce ‘un antico regno in un passato lontanissimo’.
La dualità della storia (Nagasaki del 1941 = presente, regno antico = passato) viene evidenziata dall’utilizzo degli stessi attori. Tamaki diventa la Principessa, destinata al trono in seguito alla morte del Re, interpretato dal professore archeologo. Ozu è il cupo, e vagamente amletico, Mizuwo, addetto alle cerimonie funebri del regno, in cui il culto dei morti è tenuto in gran conto. La perfida milionaria fa la cattiva anche nel passato: Hiibara è la consigliera del Re che trama contro la Principessa.
Anche i costumi sono gli stessi, semplici e monocromatici, come del resto le luci, poco sofisticate. Al centro del palcoscenico un’enorme struttura in marmo conficcata nel terreno, ad evocare un grande veliero che stia per inabissarsi da prua, lasciando in superficie ormai solo la poppa. Tre gradini di pietra su un arco capovolto conducono al proscenio. Impalcature ai lati, tre lampade al neon posizionate verticalmente su dei treppiedi illuminano freddamente la scena.
L’impressione che ne deriva è che il regista voglia concentrare l’attenzione del pubblico, più che sull’azione, sui dialoghi, fittissimi e ricchi di giochi di parole, caratteristiche distintive dei testi di Noda. La recitazione degli attori, però, è piuttosto piatta, le voci troppo forti, i movimenti hanno qualcosa di innaturale, le numerose scene di litigio spesso sfiorano il ridicolo.

Quando all’improvviso si fa buio e i neon degli scavi lampeggiano come saette, ecco il cambio di scena, il salto nel tempo. Anche la bara, un parallelepipedo blu facilmente spostabile, è multifunzionale: all’occasione può diventare letto, vasca da bagno, nascondiglio, varco magico tra il presente e il passato.
Ma la campana di Pandora? La campana, e il nome Pandora, appaiono molto tardi, dopo forse mezz’ora di uno spettacolo che dura quasi due ore, con un coup de théâtre. Lo stipite e l’arco rovesciato dell’accesso al proscenio si accendono di una cornice di luce bianca a disegnare il profilo di un oggetto che gli archeologi definiscono un’enorme campana. Lampi in scena, e lo svolgimento del mistero continua nell’antico regno, dove si contrappone all’enigma del chiodo ritrovato nel sito di Nagasaki. In effetti la vicenda è intrisa di elementi contrapposti, anzi speculari: vita e morte, bene e male, amore e potere, pazzia e saggezza, silenzio e suono.
Il suono è quello soave dei rintocchi della campana. Questa fa parte del bottino di guerra che il Re, fratello della Principessa, aveva conquistato contro lo Stato di Pandora, da cui prende il nome.
Il fiume di parole che i personaggi si scambiano svela un mistero dietro l’altro. Il Re non è morto, ma impazzito. Per non rivelare questa tragica verità al popolo, Hiibara ha messo in scena il funerale regale, ma la sua trama è stata scoperta da Mizuwo, addetto alle sepolture. La perfida consigliera vorrebbe mandare a morte il giovane, ma la Principessa, che se ne è innamorata, si oppone.
Mizuwo scopre sulla campana una misteriosa incisione in una lingua sconosciuta. Inoltre è convinto che il vecchio Re, che si aggira intorno alla campana coperto di pelli di capra, attraverso il suo canocchiale con cui scruta fisso il mare riesca a vedere il futuro. Il giovane ripete alla Principessa una frase enigmatica, apparentemente incomprensibile: il mio primissimo ricordo è un cielo rosso fuoco.
La raffica di dialoghi e l’intreccio piuttosto complesso lasciano dei punti oscuri nello svolgimento dei fatti, ma risulta chiaro che la campana, come il mitico vaso, custodisce qualcosa che sarebbe meglio non svelare, e la giustificata curiosità di Mizuwo  rapportabile a quella dannosa di Pandora.
Il climax viene raggiunto quando il giovane riesce a decifrare l’inscrizione: sopra le teste esploderà un secondo sole. In quell’istante il tempo scorre in avanti come una bobina impazzita, fino a quel fatidico 9 agosto 1945.
Il suo primissimo ricordo era un cielo rosso fuoco. Passato e futuro si intrecciano, anzi combaciano. Sopra le teste è esploso un secondo sole. I sopravvissuti allo scoppio della bomba atomica, ustionati dall’onda d’urto, strisciano per terra, invocando aiuto e acqua. Le loro gole sono riarse, bruciano. Acqua! Acqua! (In giapponese: mizu wo!) Mizu wo! Mizuwo! Sì, quei poveretti invocano il suo nome!

Il vaso è stato aperto. A richiuderlo subito, anche se ormai troppo tardi, cosa rimane? La speranza.
La Principessa capisce che c’è solo una soluzione per far tacere per sempre i funesti rintocchi della campana: il proprio sacrificio. Dunque chiede a Mizuwo di seppellirla viva insieme alla campana. Il giovane si oppone, ma, pur contro il suo volere, si vede costretto a esegue l’ordine. Pianta un grosso chiodo sulla corda che tiene sospesa la grande campana, dà un colpo di martello e…
Buio! Le voci dei due innamorati si sentono lontane, rimbombanti, come provenienti dall’oltretomba. La Principessa invita Mizuwo a parlarle finché non sarà morta. La sua voce si fa via via più flebile, fino a scomparire.
Le ultime parole sono di Mizuwo, e suonano come una condanna per il genere umano: non si può sconfiggere il futuro.
Ed è anche la sentenza definitiva di Hideki Noda su un quesito assurdo ma affascinante insieme: se l’uomo fosse in grado di prevedere il futuro, avrebbe la forza, o la volontà, di opporsi, di mutarne il corso? La sua risposta è chiaramente negativa.
Il palcoscenico è avvolto nel buio. L’andirivieni del tempo si è fermato. Rimane soltanto il rumore della pioggia, sempre più forte.
La pioggia nera che bagnò Nagasaki.

(2021/6/15)