Tera (versione Kyoto) – E tu, chi sei? | Cristian Cicogna
Tera (versione Kyoto) – E tu, chi sei?
Rinzaishū Kōshōji
2021/3/28
Text by Cristian Cicogna
>>>Giapponese
Cast
Regia: Yukari Sakata
Interpretazione: Miho Inatsugu
Musica: Kyojun Tanaka
Drammaturgia: Maho Watanabe
Costumi: Kyoko Fujitani(FAIFAI)
After talk
Kyojun Tanaka
Maho Watanabe
Rina Tanaka (critico)
L’ennesimo autogol della razza umana ha il nome scientifico di SARS-CoV-2, ribattezzato dall’OMS, in data 11 febbraio 2020, COVID-19.
Nipote di SARS e MERS, coronavirus che ci avevano spaventato, in maniera molto limitata, nel 2003 e nel 2012, il COVID-19 ha invece sfruttato alla grande i canali della globalizzazione che avvolge ormai quasi l’intero pianeta come la mortale tela di un ragno. Possiamo affermare senza alcuna ironia che il virus si sia diffuso viaggiando comodamente in business class.
È arrivato e in poche settimane ha sconvolto la vita sociale di intere nazioni, e successivamente di tutta l’umanità. Sdoganato l’uso della mascherina protettiva tra la gente comune. Partorito frasi e slogan che rimarranno a lungo nell’immaginario collettivo, una emblematica: andrà tutto bene. Ha rispolverato parole desuete, di medievale memoria, come pandemia, quarantena, peste, untore. E contagiato il vocabolario con altrettanta efficacia dell’infezione (da notare lo tsunami di anglicismi!): lockdown e smart working in primis.
Il Giappone, grazie al suo essere isola e al rinomato senso civico (mascherine e distanziamento sociale fanno parte del DNA del cittadino nipponico), è riuscito a limitare i danni diretti della malattia, ma non ha potuto evitare l’invasione dei neologismi.
Oltre a quelli tecnici giunti anche in Italia, ce n’è uno peculiare della lingua giapponese: korona-ka, letteralmente ‘cataclisma da coronavirus’.
Da un anno a questa parte è entrato a gamba tesa nei notiziari e nelle conversazioni della gente, diffondendosi con un tasso di contagiosità superiore al virus stesso, come introduzione a un discorso sul tema o come giustificazione a limitazioni, scomodità e negligenze.
A differenza dell’Europa e degli Stati Uniti, in Giappone lo stress cova come un magma sotterraneo che difficilmente trova sfogo in manifestazioni di protesta, scioperi o infrazioni delle regole, soprattutto di gruppo. Il rischio è, ovviamente, l’implosione. E dunque non è un caso che il numero dei suicidi superi di gran lunga quello dei decessi provocati dal covid.
Per quanto agli stranieri sia concessa una maggiore libertà d’azione rispetto alle severe regole sociali (diciamo che si è giustificati a non conoscere quelle più subdole, che sono spesso anche le più pesanti), non è semplice convivere con lo stress da pandemia e ogni volta che la sento, l’espressione korona-ka mi provoca un piccolo tic sotto l’occhio destro.
In tutta questa situazione, sotto una pioggia fredda che faceva strazio dei ciliegi in piena fioritura, ammaliati nella settimana precedente da temperature inusuali per fine marzo, sono andato alla ricerca, in un quartiere di Kyoto fuori dalle rotte turistiche, di un piccolo tempio della scuola zen Rinzai, il Kōshōji. Lo scopo non era sottopormi a una severa esercitazione zen, bensì assistere a uno spettacolo teatrale, curiosamente allestito all’interno di un tempio buddista. Ma nulla faceva presagire che Tera si sarebbe rivelato una preziosa seduta psicanalitica di gruppo.
Un bel portone di legno scuro spalancato su un curvo sentiero di lastre bianche striate di ruggine, luccicanti alla pioggia, che conduceva alla sala adibita alla performance. Il tempio, sulla destra, restava immerso in un verde brillante di madida luce.
Tolte le scarpe, gli shōji (porte scorrevoli dal reticolato di legno e carta tipiche delle stanze in stile giapponese) si aprivano su una stanza rettangolare non molto grande ma dal soffitto particolarmente alto, pressoché spoglia. Al posto dei tatami, pavimento in linoleum riscaldato. Una ventina di sedie pieghevoli divise in due file e una decina di cuscini sulla fila anteriore erano i posti a sedere; quelli utilizzabili, per osservare il distanziamento, la metà. Gli spettatori potevano prendere posto solo dove era posizionato un mokugyo (lett. pesce di legno), piccolo strumento a percussione in legno usato nella tradizione buddista, con una scanalatura sul retro contenente il martelletto che serve per farlo suonare, producendo un suono secco simile a un gong.
Non c’era un palco vero e proprio, nessun oggetto di scena, soltanto una bella sedia con un alto schienale e un cuscino. Alle spalle, da una nicchia incassata nel muro, la statua del Bodhisattva Kṣitigarbha, che in giapponese viene chiamato Jizō, spandeva, tra invisibili volute d’incenso, un benevolo, anche se enigmatico, sorriso.
A sinistra della sedia, a occupare l’angolo, il musicista Kyōjun Tanaka era già impegnato alle percussioni, nonostante mancassero alcuni minuti all’inizio dello spettacolo (e in Giappone la puntualità è la norma). Il suono prodotto dai tamburi percossi a un ritmo cadenzato e ripetuto non aveva nulla di orientale. Richiamava piuttosto una cerimonia tribale intorno al fuoco in uno sperduto villaggio africano.
Scoccate le tre, Kyōjun Tanaka si porta al centro della saletta e invita i partecipanti (termine più appropriato di spettatori) a suonare il mokugyo, coinvolgendoci in un insolito ma divertente jam session (inusuale è il coinvolgimento del pubblico, solitamente rigido e composto, che difficilmente si lascia andare agli applausi a scena aperta).
All’entrata in scena di Mitsuko Kyōgoku, interpretata dall’attrice Miho Inatsugu, le luci rimangono quelle arancioni che colano morbide dai quattro lampadari a foggia occidentale incastonati nel soffitto. La pallida luce del pomeriggio piovoso filtra dalla carta dei pannelli scorrevoli che fungono da finestre alle spalle dell’esiguo pubblico.
Mitsuko Kyōgoku è una ragazza trentenne nata e cresciuta nel tempio (i monaci buddisti possono sposarsi e avere una famiglia, che vive all’interno del complesso). Una ragazza normale, come tante, che contatta le amiche tramite lo smartphone, mette storie su Instagram, canta. E, come sassolini lanciati distrattamente in un laghetto, si fa domande. Perché esistono i templi? Cosa c’è dopo la morte? Che senso ha la vita prima che l’uomo diventi un mucchietto di ossa? E non le fa solo a stessa, le rivolge direttamente a noi partecipanti, sotto forma di questionario.
Come!? Dobbiamo rispondere veramente?, si legge lo stupore sulle nostre facce.
Ma niente fogli e matitine, caratteri minuscoli e tempo sprecato. La risposta, facoltativa, si dà percuotendo il mokugyo. Ora tutto torna.
L’indagine riguarda le nostre sensazioni riguardo al post mortem. A sorpresa spunta la parola sepoltura, laddove la tradizione buddista prevede la cremazione. La percezione dell’importanza di una tomba, il desiderio di essere ricordati dai parenti o la volontà di ritornare alla natura spargendo le ceneri in mare o nei boschi.
Alla prima domanda solo un timido rintocco da una sedia all’estrema destra, poi il ghiaccio si scioglie e la sala rimbomba dell’ottuso suono dei mokugyo. Rimuginando sulla possibilità e sull’eventuale significato di morire lontano dall’Italia, partecipo al gioco.
Inaspettatamente Mitsuko Kyōgoku precipita all’inferno.
Ai lati della nicchia due porte danno accesso a una stanza utilizzata come camerino. Da lì, con voce da oltretomba, la ragazza invoca aiuto. Infilata una maschera di gomma con le sembianze di Jizō, Kyōjun Tanaka, con movenze impacciate di chi non sembra abituato a stare su un palco, corre in suo soccorso.
Inferno: senza dubbio la parola-chiave dello spettacolo. Tutti stiamo sperimentando l’inferno che la pandemia ha scatenato. E la questione che viene posta in Tera è la seguente: c’è possibilità di salvezza?
La vita terrena viene rappresentata in forma di un’imbarcazione, la Hamakaze (lett. brezza marina), che naviga su un mare periglioso, l’inferno del nostro tempo. Ma la barca non è unica: attraverso il trasbordo dalla Hamakaze 1 alla Hamakaze 2, poi alla 3 e così via, la protagonista supera i vari pericoli. Ed eccola comparire in costumi sempre diversi, a sfogare le sue emozioni cantando. Non si tratta del ciclo di morte e rinascita, piuttosto di una progressione, di una crescita interiore, come un animale che fa la muta.
Mitsuko Kyōgoku canta il suo malessere a squarciagola, sfoggiando abiti fantasiosi, poi ad un tratto bisbiglia, quasi se ne fosse ricordata solo in quell’istante: io sto bene da sola, posso vivere tranquillamente da sola. Però (pausa magistrale) che tristezza!
Accompagnato da un lungo sospiro, Kyōjun Tanaka le fa eco: sì, che tristezza!
Il pubblico ride, e siamo tutti concordi.
La pandemia ha sicuramente acuito la solitudine che già gravava sulla società contemporanea. L’impossibilità di muoversi, la paura di uscire, il timore del contatto, l’angoscia del presente e l’incertezza sul futuro. Con la sua forma fluida e itinerante Tera è una specie di salvagente lanciato nel mare infernale che stiamo attraversando. Il suo messaggio: non siamo soli.
Se la montagna non viene da Maometto, Maometto va alla mantagna. Questa può e deve essere la forza del teatro in questo momento storico così particolare e difficile.
L’aspetto più interessante di questo semplice spettacolo sta nella sua versatilità. Innanzitutto quella del titolo. Tera in giapponese significa tempio buddista, ma la scelta di scriverlo non in kanji, cioè con il carattere cinese, bensì in katakana (il sillabario usato per i nomi propri e i toponimi esteri, le parole di origine straniere o per enfatizzare una parola) stuzzica la fantasia. Tera è il prefisso dell’unità di misura che moltiplica un valore per 1012 (es. terabite), ma può indicare anche la parola terra delle lingue latine. Nell’antico greco significa cosa portentosa.
Poi c’è l’elemento ‘versione Kyoto’. Nella prima di Tokyo, il fulcro della scena era costituito dalla presenza sull’altare della statua di Amida Nyorai (Amitabha Buddha), in quanto ambientato in un tempio della scuola della Terra Pura. Il punto di forza di Tera consiste nella sua libertà di azione, non rimanendo costretto in una rigida cornice. Pur mantenendo la sua struttura portante, basta cambiare i nomi dei templi e dei luoghi, i sutra recitati, e la performance può viaggiare libera come su un tappeto volante.
E perfino sconfinare all’estero. Nel 2020 è stato messo in scena in un tempio in Thailandia, da un team locale. Successivamente rappresentato in Myanmar, Indonesia e Vietnam, sempre da staff autoctono, ha dato vita al progetto internazionale Terasia – teatro itinerante ai tempi della quarantena.
Protagonista assoluto del climax finale è Kyōjun Tanaka con le sue percussioni.
Il 108 è un numero simbolico e ricorrente nella pratica buddista. Indica le passioni che sconvolgono l’animo umano, i quesiti della meditazione zen, i rintocchi di campana a cavallo della mezzanotte di Capodanno.
E 108 sono le domande che, accompagnate dal ritmo serrato e ossessivo dei tamburi, Kyōjun Tanaka propone ai presenti. Uno schermo alle sue spalle mostra i caratteri ben visibili (essendo la lingua giapponese ricchissima di omofoni, la visualizzazione in kanji favorisce la comprensione). La risposta, superfluo dirlo, si dà a colpi di mokugyo. Tera si trasforma in un piccolo concerto improvvisato.
Si parte da domande generiche, per sondare i gusti e le preferenze: pane o riso, mare o montagna, città o campagna? C’è anche l’attualità: utilizzi le mascherine di stoffa (lavabili) o quelle usa e getta? Per passare allo stile oroscopo e dintorni: sei innamorato di qualcuno in questo periodo? Hai mai fallito in amore? Sei narcisista? Vuoi essere il numero uno?
Ma da un certo punto in poi le domande diventano più stuzzicanti, specialmente per i canoni della conversazione tra sconosciuti, dal raggio decisamente limitato, a cui sono abituati i giapponesi, notoriamente riservati, se non addirittura reticenti.
Secondo te l’essere umano è debole o è forte? Vorresti più amici? Il cuore si trova nella testa, nel petto, fuori dal corpo? Dopo la morte vuoi incontrare i tuoi familiari defunti?
Insomma, questioni che rimangono avvinghiate al cervello più a lungo dei sordi echi del mokugyo.
Dunque Tera si rivela anche l’occasione di guardarsi dentro, confrontarsi con domande scomode, volutamente schivate o inconsciamente accantonate, per paura, per pigrizia, per vigliaccheria. E le risposte date, ma anche quelle mancate, si librano nell’aria, confondendosi con il profumo dell’incenso.
La sensazione di trovarmi a una seduta psicanalitica di gruppo è ormai completa. Del resto, tera sta anche per terapia.
Si giunge all’ultima domanda, la più bella e forte: e tu, chi sei?
Le percussioni tacciono, i martelletti fermi a mezz’aria, ognuno sospeso, per una brevissima frazione di secondo, come immortalato in un fotogramma che mostra lo stupore di chi si sente ingannato. Ingannato da se stesso, perché reso cosciente, quasi a tradimento, di non avere la risposta pronta.
(2021/4/15)